Memori del nostro pellegrinaggio parrocchiale del 2009
San Carlo al Sacro Monte di Varallo
Qui il cardinal Borromeo pregò nei suoi ultimi giorni, girando a lume di candela, di notte, fra le cappelle.
di Luca Frigerio
Saliva Carlo al Monte di Varallo con negli occhi ancora il volto dell’Uomo della Sindone che aveva contemplato a Torino, arso da un fuoco spirituale che non voleva placare ma alimentare, presago forse che quelli erano per lui gli ultimi giorni terreni, da vivere intensamente quanti altri mai della sua pur generosa vita. Si era allora nell’ottobre del 1584, e più volte prima di allora il santo arcivescovo si era spinto quassù, fra quelle cappelle che un frate minore, il francescano Bernardino Caimi, aveva eretto in questa parte della Valsesia per nostalgia della Terra Santa e per riproporre allo sguardo dei fedeli i luoghi della Passione di Cristo. Così infatti aveva fatto il Borromeo tredici anni prima, dopo una malattia che lo aveva prostrato, per riposare e meditare. E così ancora nel 1578.
Ma solitudine anelava ora il vescovo in quel sacro luogo, quasi gli fosse necessaria come l’aria. E come sostentamento, meditazioni, meditazioni, e ancora meditazioni, fino allo stremo, quasi che caricando di privazioni quel “pavido mulo” del suo corpo, come egli stesso lo chiamava, potesse infondere rinnovata forza nel suo spirito. Per questo, nell’eremo valsesiano, scelse per sé la cella più isolata, arredata unicamente di un pancaccio su cui stendersi poche ore per notte, avvolto di una ruvida coperta, senza neppure il conforto della paglia. E per cibo sempre e solo pane e acqua.
Tra quelle cappelle, san Carlo provava come un’ebbrezza mistica, e davanti alla vivida rappresentazione del Cristo flagellato e crocifisso sostava per ore, in preghiera e meditazione, come rapito dall’estasi nella vagheggiata Gerusalemme, quale novello Cireneo sul Golgota. Durante il giorno il vescovo non poteva dimenticare talune incombenze pastorali, ma al calar della sera ogni sua fibra vibrava soltanto per il Sacro Monte. “Era uno spettacolo commovente e di grande edificazione -scriverà il Bascapè, del Borromeo segretario, biografo ed epigono, nonché strenuo attuatore del progetto varelliano – il vedere di notte quel grande prelato, senza alcun compagno e con una lanternetta sotto il mantello, avviarsi per quei sentieri lungo la cima del monte verso la cappella, che riteneva più opportuna per compiervi, come aveva deciso, i suoi esercizi spirituali…”.
Tutto questo è illustrato in uno dei Quadroni dedicati alla vita di san Carlo ed esposti, ancora in queste settimane, fra le navate del Duomo di Milano. Un dipinto semplice, ma non banale, emotivamente coinvolgente, realizzato nel 1602 da Giovan Battista della Rovere detto il Fiammenghino, e che è diviso come in due parti: sulla destra, infatti, vediamo il Borromeo che, come racconta un suo biografo, durante la sua permanenza a Varallo si alzava prima dell’alba per accendere il lume umilmente ai chierici oblati che erano lì in ritiro, “servendoli” così nelle loro orazioni; a sinistra, invece, il santo vescovo è mostrato mentre di notte percorreva il viale delle cappelle, in preghiera, alla luce della luna e di una lanterna.
Ma da lì a pochi giorni san Carlo fu assalito da febbri, e i fidati amici che erano rimasti con lui lo costrinsero a mitigare almeno un poco l’asprezza delle sue penitenze.