La voce dei cristiani è il grido di dolore dell’umanità

La voce dei cristiani è il grido di dolore dell’umanità

 
di Mario Ponzi
“Il rischio è che adesso liquidino la strage di Alessandria d’Egitto come un imprevedibile atto terroristico. Ma non è così. È un grave episodio di intolleranza religiosa:  contro i cristiani in primo luogo, ma anche contro tutti gli egiziani”. Il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, non nasconde le sue preoccupazioni dopo l’attentato alla comunità copta ortodossa nella metropoli egiziana. “È la tragica conferma – aggiunge – della lucida visione manifestata da Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2011:  un testo nel quale il Papa mette esplicitamente in guardia dai pericoli che può comportare per tutti il mancato rispetto della libertà religiosa”. Nel tracciare un bilancio del suo primo anno alla guida del dicastero, il porporato sottolinea proprio la drammatica attualità del tema del messaggio pontificio e invita a tenere alta la guardia di fronte ai ripetuti episodi di violenza che continuano a colpire le minoranze religiose.

Quali scenari si aprono ora per i cristiani in Egitto dopo la strage di capodanno?

Il timore è che si finisca per attribuire la responsabilità a gruppi terroristici. Sarà anche vero, ma ciò non deve far dimenticare che sono stati uccisi degli egiziani:  e questo è avvenuto nel loro stesso Paese, nelle loro strade, tra le loro case. Uno Stato deve difendere i suoi cittadini, non deve consentire che vivano nel terrore, senza protezione. Per i cristiani questo accade troppo spesso, quasi che fossero cittadini privi di cittadinanza. Ricordo che quando qualche tempo fa l’Egitto fu preso di mira da attentati terroristici contro i turisti – una fonte di ricchezza per la nazione – vennero presi immediatamente provvedimenti efficaci per la sicurezza di quanti si recavano in visita al Paese. Io auspico che siano messe in atto le stesse misure per garantire l’incolumità dei cristiani.

Nel suo messaggio il Papa lega il rispetto della libertà religiosa alla costruzione della pace. Garantire questo diritto fondamentale è sufficiente per assicurare oggi la concordia tra i popoli?

Il mondo di oggi sembra essere stanco di Dio. È meno tollerante, meno disponibile nei confronti delle manifestazioni della religione. È un mondo che vuole allontanare Dio il più possibile, che non è più capace di amare. Un mondo in cui ognuno ha paura dell’altro, di ciò che avverte come minaccia, di ciò che può sconvolgere i suoi piani. Purtroppo è questo il frutto di una cultura negativa che va sempre più diffondendosi. Aumenta la sensazione di insicurezza, di impotenza nei confronti del male stesso. La religione rappresenta quella dimensione positiva che non trova spazio in questo mondo.

Eppure il diritto di professare la propria fede è riconosciuto a livello internazionale.

Di diritti calpestati parliamo quotidianamente. La libertà religiosa è – dopo quello alla vita – il primo diritto da garantire alla persona umana. Ne ho parlato quando ho presentato il messaggio del Papa, ricordando le parole dell’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Ma la Chiesa ha fatto anche di più, dando contenuto ai principi sanciti in quel testo e ribadendo soprattutto la dignità della persona fatta a immagine e somiglianza di Dio. Questo ha dato fastidio a qualcuno. Eppure bisogna chiedersi  onestamente:   se  si  nega  la  dignità dell’uomo, dove si può trovare il fondamento  di  tutti  i  valori  che  devono guidare la vita su questa terra? Fare a meno di questi valori significa ritrovarci nello stato nel quale viviamo oggi.

A cosa si riferisce?

Per esempio, al sangue che continua a scorrere tra i credenti; ma anche al miliardo di affamati nel mondo, a chi muore nei cantieri di lavoro per incuria, a chi non ha più una patria, un tetto, di che vivere. Per capire e affrontare questa realtà non c’è bisogno di grandi teorie filosofiche. Il Papa lo ha ripetuto chiaramente pochi giorni fa, quando ha ricordato che il mondo non è sotto il controllo di Dio, il quale chiede sempre all’uomo una risposta libera. C’è un’altra potenza che cerca di dominarlo escludendo Dio:  è il male. La venuta di Cristo e la sua risurrezione hanno confermato quanto Dio ci ha insegnato e continua ad insegnarci:  egli sconfiggerà il male, vincerà la morte. Dunque il cristiano sa che il dominio del male è effimero e passeggero. E questo lo conforta e gli dà nuova forza per non cedere allo scoraggiamento. Ma tale verità deve essere sempre annunciata, predicata e promossa. Anche se a molti dà fastidio.

È trascorso poco più di un anno da quando è stato nominato presidente del dicastero. È vero che prima di assumerne la guida è andato a lezione dal Papa?

In un certo senso sì. Sono stato membro del dicastero per molto tempo, anche se ne seguivo l’attività soprattutto dall’esterno. Me ne sono reso conto quando Benedetto XVI mi ha chiamato a questa nuova responsabilità. Ho cercato allora di penetrare più a fondo il suo pensiero e il suo magistero a proposito della pace e della giustizia nel mondo. La cosa migliore da fare mi è parsa quella di andare direttamente alla fonte. Gli ho chiesto udienza. Si è trattato di un lungo incontro durante il quale ho capito quale era la strada da seguire.

E cosa ha imparato da lui?

Innanzitutto ho capito che bisogna insegnare alla gente a distinguere tra pastorale e politica. Noi siamo pastori e non facciamo politica. La nostra dimensione è pastorale. Nel coinvolgimento della vita sociale, queste due diverse dimensioni si ripresentano di continuo e richiedono sempre un giudizio, una presa di posizione. Ciò che ci deve guidare è sempre e soltanto la prospettiva pastorale.

E allora dal punto di vista pastorale cosa ha caratterizzato l’attività del dicastero nell’anno appena trascorso?

Soprattutto la diffusione della Caritas in veritate. Per noi è il vademecum della giustizia e della pace nel mondo. Dunque è chiaro che il nostro impegno principale è quello di farla conoscere a tutti. Ai vescovi, ai sacerdoti, ai catechisti spetta il compito di far penetrare il suo messaggio nelle fibre stesse della società attraverso gli uomini e le donne del nostro tempo. Ecco, direi che il nostro primo impegno è stato quello di trasformarci in apostoli di questa grande enciclica.

Che livello di attenzione ha riscontrato?

Direi soddisfacente. Bisogna però distinguere le circostanze. Per esempio, quando abbiamo convocato incontri e riunioni di studio qui a Roma la partecipazione è stata molto alta. Sono venuti vescovi, professori e studiosi da ogni parte del mondo:  per tutti si è rivelata una grande occasione di formazione e una bella esperienza di confronto costruttivo. Un certo interesse lo abbiamo notato anche in diversi Paesi africani, soprattutto in quelli più bisognosi di giustizia e pace. Negli Stati Uniti, invece, abbiamo dovuto affrontare un problema particolare, legato all’uso e al significato di alcuni termini dell’enciclica.

Per esempio?

Il termine “sociale”:  noi lo intendiamo come bene comune, ma negli Stati Uniti è accostato piuttosto a un’idea politica, al socialismo. Allo stesso modo, il concetto di “dono” non viene considerato nel senso cristiano, ma piuttosto come in una prospettiva di welfare. Questo ci ha fatto capire quanto sia necessario diffondere i testi del Papa in modo tale da renderne possibile la comprensione a tutti, anche alla gente comune.

Questo è un principio valido per qualsiasi messaggio.

Certamente. Pensiamo per esempio al termine “globalizzazione”. Di recente abbiamo partecipato a un convegno in Svizzera, nel corso del quale abbiamo discusso molto su come dare un volto umano a questo fenomeno, soprattutto in un momento in cui si parla così tanto di economia.

E a che risultati siete giunti?

È chiaro che ci vuole una guida. Nel senso che bisognerebbe istituire un’autorità sovranazionale, universalmente riconosciuta, capace di dare un indirizzo etico e morale allo sviluppo. Durante la riunione in Svizzera, alcuni hanno avanzato la proposta che fosse proprio la Santa Sede ad assumere questo ruolo guida.

E come è stata accolta la proposta?

In realtà, questo ruolo sovranazionale oggi spetta già all’Onu. Dunque non ci sarebbe bisogno di creare un doppione. Sarebbe piuttosto necessario dare a questa organizzazione un volto nuovo, più rispondente ai tempi mutati. Oppure si potrebbe pensare a un forum nel quale siano coinvolte le nazioni del mondo, tutte con pari dignità, con pari libertà di esprimersi e con le stesse possibilità di concertare piani comuni. In sostanza, davanti a un processo così incalzante di globalizzazione credo sia necessario rispondere con un’iniziativa altrettanto globale, che coinvolga tutti i Paesi e sia soprattutto sovranazionale. Forse l’Onu potrebbe essere riformata in questo senso. Una cosa è certa:  ciò che sta accadendo nel mondo è qualcosa che va al di là di ogni confine nazionale. E bisognerà cominciare a prenderne atto seriamente. Non a caso il Papa continua a richiamare la necessità di valutare i problemi globalmente.

Anche nel messaggio per la Giornata della pace 2010 il Pontefice ha invitato tutti alla responsabilità della salvaguardia del creato. È passato un anno:  cosa è stato fatto in questo senso nel mondo?

È ancora tutto da verificare. Da parte nostra, possiamo parlare delle iniziative portate avanti da diversi episcopati. Hanno cominciato alcune conferenze episcopali europee, che hanno organizzato un pellegrinaggio ecologico da Budapest a Mariazell, in Austria, seguendo il corso del Danubio. In ogni tappa si sono tenuti conferenze su argomenti legati alla protezione dell’ambiente e incontri di preghiera per ringraziare il Creatore e per attingere nuova forza di testimoniare la grandezza del creato e la necessità di proteggerlo. Personalmente ho raggiunto il pellegrinaggio nella Repubblica Ceca e poi, attraverso la Slovacchia, l’ho seguito sino a Mariazell, dove abbiamo celebrato la messa con il cardinale Schönborn. Con Misereor, l’opera assistenziale della Conferenza episcopale tedesca, abbiamo organizzato a Roma un incontro di consultazione al quale abbiamo invitato esperti dall’Asia, dall’Africa e dall’America latina per studiare le condizioni ambientali nel sud del mondo.

E a livello di autorità civili?

A parte le grandi riunioni mondiali sul clima, conclusesi per lo più con scarsi risultati, abbiamo avuto notizia di incontri internazionali organizzati a Helsinki e a Stoccolma, ma anche in questi casi non si sono raggiunti esiti concreti. Noi abbiamo cercato di diffondere il messaggio del Papa in modo capillare. Certamente è giunto a tutti i capi di Stato e di Governo.

Lei accennava prima al miliardo di persone che soffrono oggi la fame:  si tratta di un triste traguardo per il 2010.

È una cifra che spaventa. Anche se bisogna valutarla sempre con molta cautela. Senza dubbio la fame nel mondo continua ad essere uno scandalo, come ripete il Papa. Anche perché ci sarebbe la possibilità di sfamare tutti. Personalmente ho assistito all’abbattimento di capi di bestiame per mantenere alto il prezzo della carne. Lo stesso avviene nei Paesi che producono generi alimentari in eccesso e poi li distruggono in nome delle ferree leggi del mercato. Per non parlare degli avanzi che il mondo opulento produce e getta tra i rifiuti. Ci sarebbe di che sfamare il doppio della popolazione mondiale. Basterebbe solo un po’ più di solidarietà e molto meno egoismo.

Non si tratta, dunque, solo di una questione legata al mancato decollo del sistema agricolo in certi Paesi.

Le porto l’esempio dell’Africa perché ne ho avuto esperienza diretta in Ghana. È quasi impossibile applicare tecniche di produzione agricola in terreni sfruttati dissennatamente e senza alcun rispetto per la conservazione dell’ambiente naturale. Per cercare e per estrarre petrolio, oro o minerali preziosi custoditi nel sottosuolo africano le multinazionali provocano danni enormi:  scavano crateri, devastano campi e foreste irreparabilmente. E così ogni speranza di coltivare quei terreni diviene aleatoria. Anche se si ricorresse alle tecniche di ingegneria genetica applicate alle piante.

Eppure c’è chi continua a rilanciare l’uso degli ogm come “imperativo morale” per la soluzione al problema della fame, vantando anche presunte benedizioni da parte della Santa Sede.

Effettivamente, soprattutto in Africa, alcune multinazionali cercano e trovano il consenso di vescovi locali per diffondere l’uso di questi organismi. Da parte mia, credo che la vera questione non sia quella di schierarsi a favore o contro gli ogm. Bisognerebbe riuscire a capire che se a un contadino africano si dà la possibilità di seminare su un terreno fertile – non distrutto, devastato o avvelenato dallo stoccaggio di rifiuti tossici – egli avrà alla fine la possibilità di cogliere il frutto del suo lavoro, mettendo anche da parte una scorta di semente tale da provvedere alla seminagione naturale dell’anno successivo. Dunque, non ci sarebbe bisogno di nessuna ingegneria genetica. In questo modo il contadino non si vedrebbe obbligato a comprare ogm dall’estero. Mi chiedo:  perché costringere il contadino africano ad acquistare seme prodotto in altre terre e con altri mezzi? E mi sorge il dubbio che dietro ci sia il solito gioco della dipendenza economica da mantenere a ogni costo.

Dipendenza economica che nulla ha a che fare con la globalizzazione o con la solidarietà.

Certo, anzi direi che si profila come nuova forma di schiavismo. Le faccio un altro esempio, confidandole un mio cruccio. Pensiamo al dramma della diffusione dell’Aids in Africa. Continua a mietere vittime in gran numero. Mi domando:  ma perché nel continente non vengono messi a disposizione dei malati i farmaci retrovirali che hanno dimostrato la loro efficacia? Si parla sempre di profilattici, ma si trascura l’aspetto della mancata distribuzione dei medicinali alle persone affette da Aids nel continente. Quindi, per tornare alla questione degli ogm, io non mi ritrovo certo nel ruolo di chi si oppone pregiudizialmente ai progressi della scienza e della tecnologia. Dico solo che bisogna valutarne sino in fondo l’effettiva necessità. E domandarsi onestamente se non si tratti piuttosto di un business per arricchire qualcuno. Un sospetto lecito in base alle tante esperienze maturate nel mio Paese.

(©L’Osservatore Romano 5 gennaio 2011)

 

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